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Wolf Creek (2016)

By Simone Corà | lunedì 4 luglio 2016 | 00:01

Tie Me Kangaroo Down, Sport                                                                          

Arriva un po’ così, come una mannaiata di Mick Taylor, il terzo episodio di Wolf Creek, senza news, approfondimenti o botte pubblicitarie con cui alimentare la salivazione. Una mini serie in sei episodi, prodotta da Stan, che pare il nome di un vecchio zio americano e invece è una sorta di Netflix australiana che vuole garantire fedeltà ai primi due capitoli attraverso violenza e ferocia che i dictat televisivi potevano amputare. Se poi Greg McLean supervisiona il progetto per non snaturarne potenza e atmosfera noi siamo tutti felici, cosa volere di più?
Insomma, una discreta bomba atomica rilasciata in un’unica sessione per un sadico bingewatching che puzza di viscere umane, carcasse di animali e fumi di scarico.
Progetto interessante, anomalo, spiazzante, una sorpresa che cala in maniera brutale, un’idea che ha molto da elaborare e offrire nonostante la sua natura virtualmente ripetitiva e potenzialmente debole dopo la maestosità selvaggia dei primi due atti: le differenze si avvertono, un calo, quantomeno visivo, è inevitabile, ma i nervi scoperchiati da McLean in questi sei episodi impensabili sono di quelli più dolorosi.

Rovesciando per l’ennesima volta lo spirito strutturale della storia, dal torture porn del primo atto al survival con grosse venature umoristiche del secondo, Wolf Creek diventa di nuovo altro, circoscrivendo la figura di Mick Taylor, che conserva ironia e risata carismatica, in creatura spaventosa che agisce sullo sfondo, apparendo solo in saltuari momenti shock che disorientano e devastano.
Mick è una bestia famelica e irrazionale, uccide senza ripensamenti chiunque incroci la sua strada, lo fa con divertimento ma anche per una primitiva necessità di non avere ostacoli tra i piedi: kill is always the best solution. Sbarazzarsi di ogni cadavere non è un problema, lo fa con la semplicità automatica di chi ammazza da una vita, niente di più facile. Ma forse qualche traccia è rimasta, sepolta sotto la polvere australiana.
Il bello di questo terzo Wolf Creek sta forse proprio negli omicidi passati di quest’aussie redneck: storie dimenticate che riemergono gravide di orrori e pulsioni ferine, diventando parte della ricerca di Eve per scovare il nascondiglio di Mick. Vittime che non hanno ottenuto giustizia, cadaveri diventati troppo presto polvere, persone che Eve accoglie durante il suo viaggio iniziatico, da atleta con dipendenze improvvisamente orfana a Terminator spietato e guidato da un unico pensiero: uccidere Mick Taylor non solo per ciò che ha fatto alla sua famiglia, ma per tutte le vite rubate e per ciò che ha scatenato con i suoi ghigni mefistofelici e il suo fucile sempre in spalla.


Sei puntate molto diverse che cambiano toni e registri pur non perdendo mai di vista la crescita individuale di Eve, si passa volentieri dall’umorismo nero verboso e da un certo taglio grottesco ingegnoso (su tutto la storia dell’apparizione della Madonna) a un’esistenziale caccia all’uomo (con tanto di spirito guida che le insegna controlli e tecniche per poter fare la guerra migliore) fatta di enormi silenzi e sguardi che si perdono negli infiniti deserti.
Scelte diverse ma leit motiv unico e coerente, cosa abbastanza difficile da gestire e che invece assicura continua benzina su un fuoco che non si spegne mai.
Poi, chiaro, non tutto gira bene, anzi, ci sono molti scricchiolii che fanno oscillare fin troppo il baraccone, scelte di comodo che evitano complicazioni legate alle distanze percorse (più volte si ripete quanto sconfinata sia l’Australia eppure i personaggi continuano a incontrarsi per puro caso), all’alto numero di protagonisti che incrociano le proprie strade (poliziotti, motociclisti, ergastolani, turisti… c’è veramente troppa, troppa gente che passa da queste parti), per non parlare anche di certe semplificazioni visive che appiattiscono la violenza (messa tutta fuori campo e giusto con qualche spruzzata avara di sangue digitale) per poi farla scoppiare esageratamente con improvvisi sbalzi fatti di animali squartati, viscere strappate, arti amputati e teste impalate che danneggiano un qualsivoglia equilibrio.

Un equilibrio che viene fortunatamente riassestato dalle apparizioni del sempre grande John Jarratt, che dona stavolta al killer australiano un’aura più apocalittica, mostruosa, quasi soprannaturale nella sua capacità di materializzarsi dall’ombra scuotendo ogni cosa.
La sua bravura separa forse troppo una sorta di esitazione o maldestria del resto del cast, sia Lucy Fry e la sua vendetta che Dustin Clare e i suoi muscoli da gladiatore non ruggiscono abbastanza ma portano a casa quel che serve, nell’attesa di una seconda stagione, si spera, sorprendente come questa chicca.

Intanto magari può essere buona cosa procurarsi i due romanzi prequel, anche lì c’è lo zampino di McLean e uno standard qualitativo dovrebbe essere assicurato.

4 commenti:

  1. McLean è ormai una specie di garante della violenza australiana. Vai sempre sul sicuro, con lui, qualunque cosa faccia. E a proposito, sono molto curiosa di vedere la sua ultima ghost story, sempre con Lucy Fry nel cast, insieme a Kevin Bacon e a Radha Mitchell.
    Io questa miniserie me la sono già vista un paio di volte. E ho nelle orecchie la devastante melodia dei titoli di testa da almeno un mese.

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    1. Finora non ne ha sbagliata una, ha un'idea precisa e una bella personalità. E anche se di The Darkness ho letto male ovunque, la curiosità pure per me è altissima :)

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  2. Se mi dici che funziona, la recupero, avendo adorato i due film. :)

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    1. Funziona, funziona benissimo. E' un po' sgangherata e forse priva di un bell'equilibrio, ma lo spirito dei film è replicato alla perfezione :)

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