Baskin (2015)

By Simone Corà | martedì 12 aprile 2016 | 00:01

Turchia nuova frontiera dell’horror, con un grumo di deliri tra Barker e Cronenberg                                                                  

Baskin è piccolo pozzo di follia infernale che, tra caproni, nani deformi e mutilazioni brutali, offre un notevole squarcio sui divertimenti 666.
Can Evrenol ha una gavetta più lunga del solito, ci sono ben otto corti con cui smussare gli spigoli a presentarlo su imdb, e infatti è abbastanza evidente come le sue skills superino molti colleghi ai primi passi tanto nella resa quanto nelle aspirazioni: se Baskin è un film gore, progettato e dedicato a chi nell’horror cerca soluzioni carnomostruose inventive e brillanti, in grado di andare oltre alla banali visioni della mera violenza pornografica, ci sono molti aspetti che ne definiscono una personalità intelligente, magari non originalissima nelle sospensioni adottate ma intrigante, sintomo di idee precise che si sollevano dallo standard più basso e diretto che potrebbe avere un film che, essenzialmente, parla di un team di poliziotti imprigionato in un girone infernale.

Dai dialoghi tarantiniani con cui Evrenol fa conoscere i suoi bad cops alla circolarità che definisce e vincola la narrazione, passando per la disorientante insert song che i protagonisti cantano in furgone, è chiaro che Baskin ha già qualcosa in più di quanto sia lecito aspettarsi (per di più da una nazione, la Turchia, che non credevo coltivasse simili germogli sanguinari), ma ciò che più stupisce sono le sequenze di stop e improvvisa quiete che scaraventano secchiate d’acqua gelida a uno spettatore sommerso da intestini e corna sataniche.
Lo scambio di opinioni sui sogni, inatteso e spiazzante, tra recluta e superiore, sparge i primi semi di un’inquietudine malsana, distorta e sottile, che si amplifica nei momenti in cui Arda sembra disancorarsi dalla realtà per approdare ai ricordi da bambino, agli orrori di quella stanza che non poteva aprire e quel braccio che lo cercava nel buio.
Più che filmarle, con una lenta camera a mano Evrenol insegue queste scene oblique e sulfuree, dilatando oltremisura i tempi tipici di un horror con simili intenti truculenti attraverso dettagli insistiti che mettono a disagio (il taglio delle bistecche, la famiglia accampata a bordo strada, per non parlare dei poliziotti stessi, corrotti, violenti e veramente viscidi), e bloccando ogni sviluppo con pause silenziose di straniante bellezza (il grido nel bagno, il tuffo nell’acqua). Quello che crea è un crescendo atmosferico abbastanza diverso da quello che ci si può aspettare: passano molti, molti minuti prima che i poliziotti entrino nella casa abbandonata per rispondere alla chiamata d’emergenza, e anche all’interno dell’edificio la discesa demoniaca è per certi versi calma, immobile, priva di qualsiasi picco di azione.


Il resto, be’, il resto è una bolgia di sangue e di visioni bestiali ma, pur rendendosi necessario un bello stomaco d’acciaio per dare congruenza alle ferocità inscenate, nello stesso modo in cui un certo tocco d’autore alza il livello generale di Baskin, anche nella gestione delle brutalità traspare una cura maggiore e una maturità che porta a evitare una sequenza di splatterate gratuite e slegate con il solo intento di forgiare shock.
Qui assistiamo a uno show di uomini-bestia che si cibano di cadaveri, mutilano persone ancora vive, copulano con carcasse non ben definite, estirpano occhi, aprono addomi e chi più ne ha più ne metta, eppure è chiara la costruzione che regge il sabba e omologa la serie di efferatezze in un lungo, asfissiante e mostruoso rito sacrificale atto ovviamente alla nascita terrena del Capro.
Notevoli poi gli scenari fumosi e soffocanti, e ottima la scelta fotografica di toni cupi e bluastri che, accompagnato da manciata di synth ipnotici, dona un fascino retrò, e forse ancora più intenso, al film. 

Credo basti, che dite?

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