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Bound to Vengeance (Reversal) (2015)

By Simone Corà | venerdì 16 ottobre 2015 | 08:45

Sorry Eve, but the killer is in another house, o del rape & revenge che comincia dalla fine                   

Ha fatto parlare di sé più per il suo punto di partenza che per effettivi contenuti, anzi, nell’uscire nei cinema tricolori, con tanto di titolo italianizzato in inglese (Reversal) e buon battage pubblicitario di immagini e trailer, pare essere solito rigurgito giovanile con cui staccare qualche biglietto facile per poi resettare la memoria.
Ma sarebbe un vero peccato dimenticarsi di Bound to Vengeance, nonostante i soliti schemi produttivi lo presentino come cattivo esempio da seguire: regista non americano da sfruttare dietro promesse di carriere, attori giovanissimi, ennesima protodivetta da lanciare contro gli schermi, and go on. In realtà la Dark Factory che lo produce è ancora più giovine e appena al suo secondo film, e distribuisce worldwide IFC, che ultimamente sta sguinzagliando il meglio dell’horror recente.
Smascherati i pregiudizi, e okay, pollice alto per la bontà iniziale, che fa cominciare la storia laddove le altre di solito esplodono nella parte conclusiva, è giusto salvare Bound to Vengeance per una solidità di stampo quasi videoludico che rende il film aggressivo, potente e con uno sviluppo piacevolmente curioso.

Eve fugge dalla stanza in cui è imprigionata e spacca il cranio al suo rapitore: ancora qualche minuto di dolore, urla di rabbia e faccia sporche di sangue, giustizia è fatta, poi partono i titoli di coda.
Un rape & revenge funziona grossomodo così, con i primi due terzi occupati, nei casi migliori, a dare spessore alla protagonista, parlare del suo passato e delle sue speranze poi infrante, per poi riabilitarne la figura, o elevarla sempre in quei casi migliori, quando l’orrore la sradica dalla sua quotidianità.
Bound to Vengeance inverte la struttura: per raccontare di Eve sfrutta una manciata di flashback, che in realtà sono il punto più debole del film, perché Eve non avrebbe bisogno di questa telecronaca per essere presentata al pubblico, basterebbe la forza con cui non si dimentica l’obiettivo prefissato, il dolore che tiene a bada per mettere un piede davanti all’altro, e la tenacia con cui resiste alla scelta più facile per fare invece ciò che è più giusto.
Dopo essersi liberata dalla catena e aver steso il bad guy, Eve scopre che ci sono altre ragazze ancora imprigionate e che lei è l’unica, in questo maledetto momento, a poter fare qualcosa. Caricatasi in macchina il killer, girovagare in città da un sotterraneo all’altro per liberare le altre vittime diventa necessità più che desiderio di giustizia, e José Manuel Cravioto è bravo a non caricare eccessivamente Eve di caratteri sensuali o da supereroina, rendendola di fatto una ragazza normale in una situazione di merda e non un robot che all’occorrenza si attiva e sfrutta il dolore per estrarre le armi.


Come fosse spinta solo dall’inerzia, come fosse morta e ora solo il suo corpo potesse muoversi per salvare altre ragazze sfortunate, Eve non ha mezzi, non ha forza fisica e non ha chiaramente ingegni machiavellici per ribaltare la situazione, è sopraffatta dal dolore e dalla sofferenza, si muove a tentoni sperando di fare la cosa giusta e di non peggiorare lo schifo in cui è immersa, spesso infatti sbaglia, piomba in circostanze sgradevoli e allucinate eppure affronta l’orrore con tutta se stessa e gli tiene testa fino alla fine.
Richard Tyson non è un grande attore e nel parlato sottolinea fin troppo la sua recitazione, ma la pacatezza con cui il suo killer insiste e confonde le idee a Eve nel professare innocenza è davvero disturbante, fa l’effetto di un suono stridente che si ripete piano ma senza fine, trapana orecchie e cervello e sfascia ogni volontà.
La riuscita di un personaggio femminile come Eve è possibile quindi grazie alla naturalezza di Tina Ivlev e soprattutto per agli accorgimenti che definiscono il contesto che la sommerge: la brutalità sottile del rapitore, gli orrori in cui sono coinvolte involontariamente le altre vittime, ma anche la sequenza di strilli e domande che piove da una ragazza salvata, interrogativi a cui Eve non può rispondere perché una è la sua missione e soffermarsi sul resto significa perdere tempo, significa possibilità di morte.

Ciò non toglie una sorta di artificiosità nella coerenza del soggetto, pur travestendola con gran cura l’ombra del giustiziere solitario è comunque evidente seppur manchi il piacere stesso della vendetta e del procurare morte: Eve vuole salvare, non vuole uccidere. Si tratta di piccole parentesi o di qualche comodità che la produzione, se non ha imposto, ha quantomeno suggerito (i già citati flashback, il modo in cui si sottolinea una certa ingenuità), momenti che vengono comunque assorbiti dal panzer complessivo perché Cravioto imprime una buona personalità nell’organizzare spazi e disegnare ambienti (un po’ come accadeva nell’improbabile ma comunque piacevole The Seasoning House).

Leggeri movimenti di macchina, piccoli piano sequenza e inquadrature diverse dal solito danno una bella marcia visiva in più al film, e amplificano quella sorta di lettura videoludica accennata in precedenza, con Eve che passa da uno stage all’altro per liberare la principessa Peach di turno. Non è uno schema preciso e rettilineo, ma la sensazione è quella, di livello in livello Eve acquisisce esperienza e può distruggere il boss finale.  

2 commenti:

  1. lo metterò nella lista di film da vedere

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    1. Be' guarda per me non c'è fretta, eh, rimane un film di genere con tutti i suoi limiti e i suoi schemi, la figura femminile secondo me è più attenta del solito e meno supereroistica e sono stati bravi e questa in fondo è la cosa che mi è piaciuta di più e che mi ha spinto a scriverne, ma non aspettarti cose enormi :)

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