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The Canal (2014)

By Simone Corà | giovedì 19 marzo 2015 | 00:05

Guardare troppi film fa male e Ivan Kavanagh ci spiega perché.                                                             

L’ossessione che diventa follia, la realtà che sfarfalla mostrandosi incubo, falle di memoria che si riempiono di materia oscura: i pilastri di The Canal sono temi classici di un certo modo di fare horror, da non confondere con banalità, si può parlare invece di punti fissi, addirittura elementi rispettosi per chi affronta certe storie dalle quali non sembra facile scrostarli. Con Beneath, Gallow’s Hill e soprattutto Honeymoon ho già parlato di come un autore possa gestire un archetipo, o meglio, delle caratteristiche archetipiche, nel cinema horror, e The Canal, proprio come lo splendido esordio di Leigh Janiak, non cercando mai di offrire qualche tipo di novità quasi Ivan Kavanagh temesse di offendere il fandom o la critica, è in grado di mostrare una bella storia pur trattandosi di una storia non originale, non innovativa e più di ogni altra cosa una storia abbastanza prevedibile.
E con questo ennesimo film, cominciano a essere tante quelle piccole produzioni che si agganciano alla classicità horror e ne tirano fuori film anche discreti – certo, il 2014 è stata un’annata portentosa ed è meglio andare con i piedi per terra prima di bearsi che anche il 2015 possa concedere tanta bontà, ma avanti così, avanti così senza paura, l’horror ha bisogno di questa mestieranza preziosissima.

Kavanagh si serve di sfumature e lavora di dettagli, sa dove colpire con le scene narrativamente cruente, cesella il ritmo con le opportune stranezze oniriche, ci infila parentesi orrorifiche che ricordano molto il j-horror di una decina d’anni fa pur con una brillantezza tutta europea che ne esalta il disagio visivo, e taglia l’ansia mistery con dialoghi rocciosi e acidi che riportano subito alla realtà.
Non sto parlando di particolare bravure, di ingegni fuori dal comune, di intuizioni meravigliose che scardinano le quotidianità e spalancano mondi su nuovi punti di vista, è semplicemente del sano, piacevolissimo mestiere, forgiato in anni di esperienza e di lavoro silenzioso (imdb dice che Kavanagh ha già fatto tre film, e tutti a tre, a quanto pare, hanno sofferto di distribuzioni limitatissime e pubblici che, boh, forse si possono contare sulla dita di una mano): la giusta educazione cinematografica deve insegnare prima di tutto a narrare bene, e infatti Kavanagh conosce gli ingredienti necessari per equilibrare genesi e crescita della sua creatura, sa bene cosa serve per sviluppare la sua storia e anche quando tenta un maggior azzardo abbracciando una virata metacinematografica abbastanza spinta, c’è una stabilità ferrea che inchioda il film alla sua natura più squisitamente horror e non sussiste quindi possibilità che il tutto possa sgonfiarsi per inseguire un prestigio aulico e in qualche modo d’autore che ne falsificherebbe le sue proporzioni.

Sono i personaggi a primeggiare, RupertEvans è disperato e credibile, il suo star male è profondo, radicato nell’animo di un uomo distrutto ma con mezzi validi e fatti concreti per indagare sul soprannaturale che lo sta schiacciando.
Attorno a lui sono tutte figure secondarie ma solide grazie a psicologie di ferro che spargono giuste domande per poi raccogliere adeguati riscontri: i comportamenti maliziosi della babysitter e la sua paura, il mesto accanimento del detective e i suoi dolori di stomaco, la dolcezza sostenitrice della collega e la sua timidezza, la superficialità della moglie e la sua amara sincerità, e ovviamente il realismo di quell’altro lui che scatena e fa presto esplodere la vicenda. Si tratta di aspetti già trovati tante volte che qui però guadagnano quella differente tonalità che ne esalta ogni gesto: il pianto dell’amante, la rabbia della madre, le occhiate della babysitter…


Piccoli dettagli fanno grande un film, e Kavanagh gioca le sue carte migliori proprio quando leviga e rifinisce i mattoni più grezzi, tanto che anche le sequenze più intramontabili trovano nuova squisitezza nell’eleganza in cui vengono presentate. Inquadrature insolite per esaltare l’inquietudine e far prevalere un’atmosfera e una sensazione da incubo, improvviso nervosismo di montaggio per fare grossi solchi nel disagio, simbolismi attenti e mai banali che rivalutano svariate parentesi di semplice fattura…
La professionalità di Kavanagh gli permette di essere sicuro e soprattutto maturo pur sfruttando materiali pericolosi (e non un caso siano fioccate svariate recensioni negative che insistono su questo aspetto, livellando gli strati del film a una sola superficie), parlo pur sempre di una storia in cui convivono una coppia in crisi, dove lei muore e l’unico indiziato è lui, con un aggravante di pozzi che conducono chissà dove, luoghi in cui la realtà pare disgregarsi, tunnel sotterranei sudici, incubi talmente vivi da sembrare veri, un fantasma mosso dal rancore puro che si muove a scatti, una casa infestata appena acquistata e ambigui omicidi che il protagonista David non sa come spiegare: sono elementi ben collaudati ma rinfrescati da una bella mano di vernice che ne consolida e rafforza meravigliosamente i contenuti.
E solo in questa maniera si può sopravvivere alle saltuarie prevedibilità, che potrebbero frantumare la pellicola proprio nel momento in cui il fattore meta si fa consistente (lui lavora in un archivio cinematografico, molto mistero ruota attorno a una strana e antica pellicola, è ben presente l’inevitabile sovrapposizione tra vita reale e immaginazione), ma no, Kavanagh viaggia sempre sul limite e non lo supera mai perché The Canal non ha bisogno di superarlo, è come se sfruttasse al meglio tutto ciò che una simile storia può offrire, tirandone allo spasimo tutti i componenti perché sa come spremerli e come ottenerne la potenza massima senza il rischio di romperli. 

Dall’Irlanda, un regista di stoffa che merita attenzione, segnarsi il suo nome è passaggio obbligatorio.

8 commenti:

  1. Oh bene: lo guardo. Ciao (e Buona Pasqua!)

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  2. Sono in fase di recuperi.
    Questo The Canal ha delle qualità oggettive innegabili. Però mi ha lasciato perplesso il centro della vicenda. Cioè, senza spoilerare, non ho ben capito lo scopo ultimo (se c'è... :) ) del regista.
    Con una regia di questo tipo, e con quel paio di ottime idee, avrei preferito più "mira".

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    1. Non credo lo scopo andasse poi molto più in là di realizzare una storia classica: tutte le cose meta e le sequenza weird sono un bel contorno ma il valore è nella scrittura dei personaggi e del loro affrontare cliché più o meno noti, non credi?

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    2. Si, ottimo, però troppo lineare, non è proprio nelle mie corde. Io vorrei vedere sto Kavanagh in una impresa più personale e meno scontata. Tutto qua.

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    3. Ma per me una storia così non è scontata, è semplice, perché in fondo non dice niente di nuovo ma riserva comunque una sua sorpresa personale perché è scritta e diretta alla grande, ed è questo quello più importante :)

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  3. Visto e recensito: ho letto dopo la tua rece, ovviamente. Concordiamo quasi su tutto :)

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