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At the Devil's Door (2014)

By Simone Corà | lunedì 6 ottobre 2014 | 08:00

Dopo la maestosa casa infestata di The Pact, un demone gigeriano attende Nicholas McCarthy                  

Ci eravamo lasciati con una casa infestata e con un fantasma che avevano molto, molto da insegnare a buona parte del cinema horror odierno. Ricordate The Pact? Io me lo ricordo benissimo, nel 2012 è stato un ice bucket challenge mica da ridere, ho sofferto parecchio durante i suoi momenti più scary, annientavano lo schermo con quel minimo di inventiva e, soprattutto, personalità che è lecito chiedere a ogni autore che vuole spaventare. Nell’esordio (eh, sì, era un esordio) di Nicholas McCarthy su tutto funzionava l’ottima gestione della camera, il suo impennarsi a tradimento per trovare l’orrore, perché l’orrore non entrava in scena schiacciando il campo e alzando il volume, era già lì e ti scrutava bastardo. E poi c’era la storia, che non era una grande storia, non aveva personaggi speciali né ambizioni miracolose, era un buona ghost story con due protagoniste ben tratteggiate, una narrazione felice e intelligente che prediligeva la normalità quotidiana al facile sensazionalismo, e, be’, un twist finale che da solo valeva la visione, una summa completa delle capacità di un autore completo (firmava regia e sceneggiatura) da segnare bello grosso sul taccuino dei tizi che dell’horror hanno capito tutto.

Servono due anni per vederlo comparire di nuovo: in At the Devil’s Door, conosciuto anche con il più sottile ed elegante Home, ci sono ancora un tema classico (se prima era la casa infestata, adesso è la possessione demoniaca), ancora due donne a guidare il film (sempre sorelle, a fare i precisini), e ancora la ricerca di un’abitudine giornaliera, di una vita come tante, di un’esistenza normale fatta di poche gioie e molti problemi, dove l’orrore si insinua come un insetto in una crepa, lento e inesorabile, allargandola fino a far crollare la parete. Purtroppo il lavoro non gli riesce altrettanto bene, a McCarthy gli è venuta bene la prima e ripetersi non è per tutti, o forse At the Devil’s Door soffre soltanto di alcune lacune che nel cinema del terrore odierno è facile individuare, ma conserva comunque una manciata di proiettili che spara con gran precisione, tanto da starsene comodamente seduto su una posizione abbastanza alta da poter sputare con gusto in basso.


Fotografato con tinte molto scure e seriose per sottolineare un grigiore quotidiano dato da dilemmi familiari mai risolti e da risultati raggiunti/negati nel lavoro che alimentano una realtà che avrebbe bisogno di ben altro colore, At the Devil’s Door spurga un tanfo di zolfo che ricorda molto l’orrore semplice ma genuino di certa narrativa degli anni Ottanta. Sembra di leggere un bel racconto del King di una volta, nell’interazione tra i personaggi e nello sviscerare il perturbante McCarthy sceglie registri poco affini alla narrazione moderna, pur subendone comunque il fascino: da una parte la lentezza espositiva gli permette di svolgere a modo il suo lavoro, posando dettagli che formano un discreto mosaico, non esagerando per stupire né per giocare tutto, appunto, sullo spavento facile, dall’altra la presenza di una creatura del tutto estranea sia al tradizionale bestiario in CG sia ai metodi scelti per mostrarla, rende il film quasi un’anomalia.
È forse quest’ultima la maggior differenza rispetto ai vari prodotti simili: pur avendo una genesi classica nell’evocazione, negli intenti e nel manifestarsi, somiglia più a un essere alieno che a un demone, certe movenze e alcuni poteri le permettono inoltre una bizzarra serie di risorse per raggiungere i suoi sporchi obiettivi che lascia gradevolmente spiazzati. 

A differenza di The Pact, sembra però che McCarthy non spenda molta fatica nel teatrino dello spavento: le scene da spavento sono poche e, pur possedendo una giusta funzionalità, sono prive di quella potenza e quella maestosità con cui si era fatto conoscere. L’interesse, è chiaro, è rivolto all’opera nella sua interezza, e si percepisce bene come voglia far risaltare i tre personaggi principali attraverso una costruzione invero piuttosto sofisticata che è per forza di cose horror ma anche altro: cinema più sottile, più attento, ben oliato da una scrittura che è sempre in primo piano.

Impreziosito da una bella non linearità iniziale, dove vengono sovrapposti due piani temporali che lentamente compenetrano per favorire il bel scorrimento del film, At the Devil’s Door non ha bisogno di grandi spiegazioni per raccontare di una possessione demoniaca avvenuta negli anni Ottanta e che ancora adesso ristagna cattiva in una casa abbandonata, in silenzio, paziente, pronta per la sua prossima vittima: McCarthy si concentra sui dialoghi per mostrare i background personali di Leigh e sua sorella, sono questi gli input necessari per sciogliere grumi narrativi iniziali e innestare buone marce per sviluppare la trama. Si mostra molto, ogni tanto si spiega, ma anche se non sempre certe strategie per sostenere il primo e negare il secondo funzionano (una certa telefonata tra sorelle e un piccolo litigio che ne nasce), ci sono ben altre soluzioni che rinvigoriscono le cadute di stile, su tutte la staffetta tra le protagoniste che può ricordare il cinema di Pascal Laugier.


È difficile replicare, e se in The Pact McCarthy era stato meticoloso frazionando con attenzione i dialoghi per plasmare un’angoscia cronometrata scrupolosamente in tutti i suoi 89 minuti, in At the Devil’s Door si sente minor sicurezza e qualche sviluppo alla cieca, c’è più tempo a disposizione ma non c’è la stessa geometria nel suddividere ritmi e scene, e da un disequilibrio che qua e là rende traballante un’impalcatura comunque sicura diventa necessario per McCarthy aggrapparsi ad alcune superficialità per tirare avanti o a qualche soluzione a buon mercato che stonano ma non rovinano il suo film. 
Ci sono quindi minori certezze, o quantomeno il timore che possa venire fagocitato dalla scena mainstream si fa più concreto, ma rimangono alte le aspettative per un regista che, come pochi altri, sembra con solo due film aver trovato una strada tutta sua: ci sono buche e varie fratture da risistemare con lunghi lavori in corso, ma io sono più che disposto ad aspettare in coda. 

8 commenti:

  1. Avevo adorato The Pact. Adesso siete già in due a parlare bene di questa opera seconda. Stasera mi precipito a vederlo

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    1. Per me The Pact era più omogeneo e pauroso, At the Devil's Door invece sembra sbilanciarsi di più, e anche se forse meno bello è parecchio più complesso e fascinoso. Poi scrivine, eh! :)

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  2. Bella la nuova grafica.
    A me sto film non ha detto proprio niente, ma magari lo riguardo che secondo me tu e elvezio eravate in serata alcoolica... :P

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    1. Eh, ma a te, è risaputo, piacciono i film brutti, non ci posso fare niente io :-p
      Ma The Pact non ti era piaciuto?

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  3. Il Pact di questo regista non mi aveva entusiasmato molto, quindi non saprei se dargli una seconda possibilità con un film che, a quanto ho capito, non mira allo spavento. E questo sarebbe già un punto di forza.

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    1. Più che lo spavento cerca l'inquietudine, è tutto molto sinistro, buio, complesso, fumoso. Pian piano si schiarisce la vicenda ma parecchio resta misterioso e il bello, tra le altre cose, è anche questo :)

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    2. Alla fine l'ho visto e ne ho pure parlato. Comunque d'accordo con te ma non su tutto :)

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    3. Ne ho letto, dici cose giuste, le mancanze ci sono ma i pregi, di questi tempi, sono davvero molti. Però per me The Pact resta sempre un film migliore, più genuino e pauroso. ;-)

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