2009, USA, colore, 98 minuti
Regia: Olatunde Osunsamni
Sceneggiatura: Olatunde Osunsamni
Nome, piccole paesino dell’Alaska. Strani fatti stanno accadendo ai cittadini: molti di loro, di notte, si sentono osservati da un sinistro gufo bianco, e quando, ipnotizzati dalla psicologia Abigail Tyler, rievocano certi ricordi, urlano, addirittura impazziscono, sconvolti da creature non umane che non riescono nemmeno a descrivere. Abigail, aiutata dal collega Abel Campos, indaga, ben conscia che ci potrebbero essere intelligenze aliene dietro tutto questo.
Difficile dare credito a un film come Il quarto tipo, introdotto e concluso poi da una Milla Jovovich e un Olatunde Osunsamni che, inquadrati come modelli di una linea di cosmetici, e in questo la Jovovich ha un’esperienza anche tutta italiana che non può non portare alla mente certi slogan, sembrano implorare chi guarda di credere, perfavoreperfavoreperfavore, a tutti i fatti narrati.
E se a un certo fascino complessivo è impossibile sottrarsi, specie per chi, come il sottoscritto, trova nelle abduction e nell’archetipo dell’alieno quanto di più terrorizzante possano offrire cinema e letteratura, a visione conclusa ci si guarda un po’ perplessi e ci si chiede se Olatunde Osunsamni e combriccola ci siano o ci facciano.
Tra documentario e film tout-court, Il quarto tipo non perde tempo a dire che si ispira a fatti realmente accaduti, e il continuo ricorso a registrazioni vocali e a filmati originali, che spesso doppiano la messa in scena filmica anche con una certa originalità, non può che sedurre e impossessarsi della mente dello spettatore in pochi minuti.
Gorgoglianti voci aliene che declamano in sumero la propria supremazia, urla scorticanti che annichiliscono e allucinanti levitazioni sono solo alcuni degli elementi presenti nel materiale di repertorio, filmato nel 2000 durante le sedute d’ipnosi effettuate alla vera Abigail Tyler, e che Il quarto tipo sfrutta, non sempre nel migliore dei modi, per dare maggiore credibilità alla vicenda.
Se le voci aliene e soprattutto la registrazione di una delle prime ipnosi riescono a far balzare dalla poltroncina per un riuscito altalenarsi di immagini presunte vere e finzione recitativa, risulta davvero strano che Osunsamni non abbia munto una simile tecnica in occasione degli altri filmati potenzialmente devastanti.
Nei momenti clou spariscono infatti gli attori in favore dei soli filmati originali, filmati che, causa “interferenze aliene”, sono letteralmente incomprensibili, rovinati da scariche di frequenza che obbligano, pur di provare quel brivido che tanto ci si aspettava, ad ascoltare le sole voci gracchianti dei diretti interessanti, anch’esse sballate e inquietanti solo fino a un certo punto.
Gran peccato e orribile gusto amarognolo in bocca, quindi, per sequenze che potevano raggiungere altissimi livelli di paura ma che invece di poco o nulla innalzano la generale atmosfera sinistra presente in tutto il film.
Osunsamni è infatti regista con un gusto tecnico sicuramente sopra la media dei suoi colleghi, e particolari piani sequenza, inquadrature inusuali, split screen e virtuosi giochi di camera sono sparsi in tutti i 90 minuti. La sua regia è attenta e piacevole e, tolti gli inutili intermezzi simil-videoclip, riesce a generare un buon miscuglio di pause e accelerazioni, dando al suo (falso) giocattolo ben più di un momento di sana, paralizzante fifa.
È invece in una sceneggiatura abominevole che si trova il più grosso ostacolo della pellicola, una sceneggiatura che pone troppa poca attenzione ai dialoghi (generalmente legnosi), ai personaggi secondari (l’esperto Odusami su tutti, tratteggiato davvero superficialmente; lo sceriffo August; ma anche i figli di Abigail) e a certi momenti di approfondimento (i sumeri, liquidati in un minuto scarso di futili informazioni senza mai accennare a passi essenziali, dato l’argomento, come il popolo degli Anunnaki, il pianeta Nibiru e tutto ciò che offrono le vaste ricerche di Zecharia Sitchin).
Regia: Olatunde Osunsamni
Sceneggiatura: Olatunde Osunsamni
Nome, piccole paesino dell’Alaska. Strani fatti stanno accadendo ai cittadini: molti di loro, di notte, si sentono osservati da un sinistro gufo bianco, e quando, ipnotizzati dalla psicologia Abigail Tyler, rievocano certi ricordi, urlano, addirittura impazziscono, sconvolti da creature non umane che non riescono nemmeno a descrivere. Abigail, aiutata dal collega Abel Campos, indaga, ben conscia che ci potrebbero essere intelligenze aliene dietro tutto questo.
Difficile dare credito a un film come Il quarto tipo, introdotto e concluso poi da una Milla Jovovich e un Olatunde Osunsamni che, inquadrati come modelli di una linea di cosmetici, e in questo la Jovovich ha un’esperienza anche tutta italiana che non può non portare alla mente certi slogan, sembrano implorare chi guarda di credere, perfavoreperfavoreperfavore, a tutti i fatti narrati.
E se a un certo fascino complessivo è impossibile sottrarsi, specie per chi, come il sottoscritto, trova nelle abduction e nell’archetipo dell’alieno quanto di più terrorizzante possano offrire cinema e letteratura, a visione conclusa ci si guarda un po’ perplessi e ci si chiede se Olatunde Osunsamni e combriccola ci siano o ci facciano.
Tra documentario e film tout-court, Il quarto tipo non perde tempo a dire che si ispira a fatti realmente accaduti, e il continuo ricorso a registrazioni vocali e a filmati originali, che spesso doppiano la messa in scena filmica anche con una certa originalità, non può che sedurre e impossessarsi della mente dello spettatore in pochi minuti.
Gorgoglianti voci aliene che declamano in sumero la propria supremazia, urla scorticanti che annichiliscono e allucinanti levitazioni sono solo alcuni degli elementi presenti nel materiale di repertorio, filmato nel 2000 durante le sedute d’ipnosi effettuate alla vera Abigail Tyler, e che Il quarto tipo sfrutta, non sempre nel migliore dei modi, per dare maggiore credibilità alla vicenda.
Se le voci aliene e soprattutto la registrazione di una delle prime ipnosi riescono a far balzare dalla poltroncina per un riuscito altalenarsi di immagini presunte vere e finzione recitativa, risulta davvero strano che Osunsamni non abbia munto una simile tecnica in occasione degli altri filmati potenzialmente devastanti.
Nei momenti clou spariscono infatti gli attori in favore dei soli filmati originali, filmati che, causa “interferenze aliene”, sono letteralmente incomprensibili, rovinati da scariche di frequenza che obbligano, pur di provare quel brivido che tanto ci si aspettava, ad ascoltare le sole voci gracchianti dei diretti interessanti, anch’esse sballate e inquietanti solo fino a un certo punto.
Gran peccato e orribile gusto amarognolo in bocca, quindi, per sequenze che potevano raggiungere altissimi livelli di paura ma che invece di poco o nulla innalzano la generale atmosfera sinistra presente in tutto il film.
Osunsamni è infatti regista con un gusto tecnico sicuramente sopra la media dei suoi colleghi, e particolari piani sequenza, inquadrature inusuali, split screen e virtuosi giochi di camera sono sparsi in tutti i 90 minuti. La sua regia è attenta e piacevole e, tolti gli inutili intermezzi simil-videoclip, riesce a generare un buon miscuglio di pause e accelerazioni, dando al suo (falso) giocattolo ben più di un momento di sana, paralizzante fifa.
È invece in una sceneggiatura abominevole che si trova il più grosso ostacolo della pellicola, una sceneggiatura che pone troppa poca attenzione ai dialoghi (generalmente legnosi), ai personaggi secondari (l’esperto Odusami su tutti, tratteggiato davvero superficialmente; lo sceriffo August; ma anche i figli di Abigail) e a certi momenti di approfondimento (i sumeri, liquidati in un minuto scarso di futili informazioni senza mai accennare a passi essenziali, dato l’argomento, come il popolo degli Anunnaki, il pianeta Nibiru e tutto ciò che offrono le vaste ricerche di Zecharia Sitchin).
Ridicole, infine, davvero ridicole le registrazioni vocali riguardanti gli avvistamenti UFO che vengono fatte scorrere durante i titoli di coda: ogni cosa buona, ogni stuzzicante elemento atmosferico, ogni singolo grammo di paura vengono disintegrati da gente – e qui non ci sono dubbi – sicuramente non appartenente alla razza umana per qualità intellettive ed ettolitri alcolici ingurgitati, che parla di “cose nel cielo che non sa descrivere”, “luci che brillano”, “riflessi sulle nuvole” e altre amenità a cui solo Roberto Giacobbo potrebbe dar credito.
Pellicola dal grande potenziale, Il quarto tipo è essenzialmente un progetto accattivante con però molte, moltissime lacune frutto di ingenuità colossali che lo fanno crollare minuto dopo minuto: ne resta una visione grossomodo piacevole ma priva di dignità, con un paio di momenti tra i più paurosi che io ricordi, e che, tolto il mezzo punto da dare in più se siete alienofobici, a stento abbranca la sufficienza.
Copione.
RispondiEliminaesatto!
RispondiEliminacopione
io leggo quell'altra!
:)
Bravo Mario. Forza Mario.
RispondiEliminaSilente Copione e pure codardo cerchiobottista.
La mia però è più andegraund.
RispondiEliminaDue volte copione!
RispondiEliminaCopione?... a me mi ha piaciuto il film. Inoltre credo che i grigi sí esistono
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