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Recensione: La figlia del drago di ferro, di Michael Swanwick

By Simone Corà | martedì 17 maggio 2011 | 13:00

Urania Millemondi, 2011 (prima parte del ciclo I draghi del ferro e del fuoco)
352 pagine di 638, 7,50€
ISBN 9771123076005

Mi ero ripromesso di ignorare Urania dopo il fattaccio traduttivo accaduto con Vernon Vinge, ma la curiosità infame ha preso il sopravvento con l’uscita/ristampa di questo romanzo del 1993, uscito in Italia dieci anni dopo con il titolo di Cuore d’acciaio e mai più ristampato, di cui da troppo tempo covavo acquoline insaziabili per permettermi di evitarlo. Dopo una lettura faticosa e altalenante, che non mi ha pienamente saziato e che mi suggerisce come il salutato capolavoro di Michael Swanwick non mi sia piaciuto fino in fondo, trovo comunque soddisfazione nel ripensare a queste 350 corpose cartelle, e anzi, riconosco molti più aspetti vincenti e assai interessanti qui che in molti altri libri goduti precedentemente.

Tra questi, impossibile non riconoscere l’impressionante maestria nella creazione di un contesto urban-fantasy meravigliosamente maestoso e cupamente marcio, un universo che, su uno sfondo strappato alla realtà odierna, inserisce un bestiario tipicamente fantasy (elfi, troll, fate, draghi) ricco però di elementi weird, fantascientifici e steampunk che spaziano dalla pura meccanica dei draghi di ferro del titolo alle teorie filosofiche più spinte e inaccessibili. L’abilità di Swanwick risiede nella mitragliata di informazioni che riversa sul lettore, gettandolo in un’ambientazione che mai trova spiegazione per i propri codici, ma che viene resa viva e pulsante attraverso uno stordimento di dettagli sapientemente giocati. Dalla fabbrica di draghi in cui viene cullata l’infanzia di Jane all’esperienza scolastica minata dal sacrificio rituale alla Dea, passando per la città universitaria dove apprende tecniche magiche e chimiche legate a sessualità e viaggi dimensionali, è facile rimanere a bocca aperta di fronte alla cura con cui Swanwick crea tonnellate di leggi, miti e usanze proprie di un mondo decadente, disturbante e inospitale, un mondo spesso impenetrabile e ostico ma di enorme fascino.

È in questi stessi aspetti di incanto narrativo che però la lettura si fa discontinua e complessa: lo show don’t tell ai suoi massimi livelli espressivi impedisce di addentrarsi pienamente nelle vicende vissute da Jane in questa vita che sboccia e cresce cercando la propria identità, troppi i particolari e gli elementi introdotti continuamente, e troppo, troppo rapida la narrazione, per quanto tecnicamente impeccabile, per poter respirare con i giusti tempi un’avventura che dura parecchi anni. E se durante l’infanzia di Jane e il suo successivo, primo approccio scolastico si rimane colpiti dalle stupefacenti invenzioni che danno carattere alla società (il ruolo dei draghi prima e la ragazza di vimini poi), è altrettanto facile smarrirsi nelle eccessive lungaggini in cui spesso Swanwick straborda (leggende, dicerie, vite personali di personaggi quasi del tutto irrilevanti, teorie fisiche e magiche di vario tipo) e nel saltuario aspetto criptico che rimbambisce per astrattismo vagamente snob, privando il lettore di qualche approfondimento che, in più di un’occasione, sarebbe stato tutt’altro che sgradito.

La trama è infatti difficilmente esprimibile: suddivisa in quattro archi narrativi che rispecchiano quattro momenti della vita di Jane, da bambina ad adulta, solo la prima parte (la fuga dalla fabbrica) può in qualche modo essere riconducibile a un qualche tipo di canovaccio fantasy, mentre quanto segue muta di scopo e toni, strutture e idee (si va da storie di scuola ad avventure amorose, passando per viaggi onirici, disquisizioni sul potere magico e rivolte popolari), avvicinandosi più a un racconto di formazione, definizione comunque da prendere con le pinze.

L’originalità di tale impalcatura, e soprattutto le rifiniture e i particolari di questo mondo immenso valgono da soli l’approccio a La figlia del drago di ferro, e sebbene non riesca a dire se avrò mai il coraggio di cominciare I draghi di Babele, sequel disponibile nello stesso volume, l’esperienza di lettura è comunque garantita.

9 commenti:

  1. Uno dei miei cedimenti come lettore. Non ce l'ho fatta, sono arrivato circa a metà e mi sanguinavano gli occhi.
    L'ho bruciato.

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  2. Purtroppo il fantasy non rientra nelle mie corde però devo ammettere che la recensione è davvero magnetica.

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  3. @ Matteo: mi ricordo che me ne avevi parlato, e in effetti anch'io più volte sono stato tentato dal chiudere il libro una volta per tutte (soprattutto dopo il capitolo sulla ragazza di vimini, dopo il quale la storia mi sembra quasi del tutto svanire in favore di boh, un casino della madonna)...

    @ Eddy: guarda, tendenzialmente anch'io odio il fantasy, se per fantasy però s'intendono certi emuli tolkeniani di quella roba luce vs tenebre, bene vs male, elfetti gai vs oscuro signore che raduna il suo esercito. Ma il fantasy, e lo dico da mezzo ignorante eh, può essere anche molto altro, se riesce nell'intento della creazione di un mondo fantastico a se stante, con le proprie regole e strutture (vedi le saghe di Martin e di Erikson, toh, i nomi più grossi), e non si limita soltanto a robe lineari tipo compagnie dell'anello che vanno da A a B per fare il culo all'evillord. :)

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  4. Non ce l'ho fatta nemmeno io, son riuscita a seguire solo la prima parte. E sì che era partito bene...
    Mio marito invece l'ha letto tutto, e pure il secondo. Ma non ha voluto rilasciarmi alcun genere di commento...
    Baci, P

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  5. Avevo aspettative davvero alte nei confronti di questo volume.
    E beh… devo dire che mi aspettavo una storia diversa. Nel complesso la lettura è interessante, certo, però ecco, mi sarebbe piaciuto che oltre a far sgranare gli occhi al lettore Swanwick lo avrebbe anche soddisfatto con una storia all'altezza o almeno una qualche parvenza di ordine nella caterva di spunti che si moltiplicano nel corso della lettura. E invece nei due romanzi (nel primo soprattutto) è un continuo overload informativo/sensoriale, un continuo "ehi, guarda, senzza mani!", che alla fine arriva quasi ad annoiare.

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  6. "Ehi guarda senza mani" penso sia la frase migliore per descrivere il libro, fantastica! :D

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  7. Uff, ma perché mi fate comprare queste cose che poi devo tenere in libreria, lanciandogli ogni tanto qualche occhiata impaurita per il terrore di iniziarlo?
    Non si può vivere così! :)

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  8. "Lo show don’t tell ai suoi massimi livelli espressivi"? Ma veramente a me sembra MOLTO raccontato, c'è pochissimo di mostrato. E non scordiamoci che un buon mostrato deriva da un buon filtro del punto di vista. Da un punto di vista prettamente tecnico e relativo alla narrativa di genere, Swanwick scrive male. È in tutto il resto che è geniale (fantasia, originalità, personaggi, idee, simbologie... ).

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