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Lost After Dark (2014)

By Simone Corà | mercoledì 2 settembre 2015 | 00:01

Uno slasher sbucato dal 1984, spolverate il videoregistratore e riavvolgete il nastro                             
 

L’onda nostalgica sembra parecchio distante dallo spegnersi, continua imperterrita con i suoi synth sfibranti e il suo look consunto a mescolare nel sangue la bava di certo pubblico: si tiene in alto l’operazione recupero anni Ottanta e la si spinge il più possibile, non ci si vergogna e si guarda al proprio prodotto come fosse l’unico, il più bello, il più nuovo, il più originale, come se tutta la scena attorno non esistesse, dritti e imperterriti verso la prossima moda.
Anche a sforzarsi di essere il più positivo e docile possibile (lo sono sempre, eh, mi rubate con un gelato al solero), la scena non pullula di visioni intelligenti come quella di un David Robert Mitchell, con It follows si sfonda una porta antica e massiccia e si prepara una strada tutta nuova che tutti dovrebbero seguire, e quindi nel mucchio dei ricordi colorati degli anni Ottanta le belle intuizioni (Maniac, Manborg, Cold in July, il recentissimo Stung) vengono stritolate dalla facilità demenziale su cui è più facile scivolare e imbastire qualcosa, e quel Kung Fury a trainare il carrozzone è, sì, divertente e okay tutto quello che volete, ma è brutto, brutto esempio di cosa invece potrebbe nascere da questo nuovo modello di fare cinema.
Lost After Dark, per esempio, che a conti fatti non è un vero e proprio prototipo da santificare, ma ha qualche cosa nella sua (furba, per carità) realizzazione che mi porta a preferirlo di gran lunga (e non che ci voglia molto) a, che so, l’ennesimo film di zombi che ripete abusatissimi schemi ma cerca anche di essere ricco e profondo come il pessimo Extinction dimenticandosi della necessaria chiave entertainment che, in queste produzioni di ripetizione di concetti stravecchi (e l’accoppiata Sy-Fy/Asylum sanno bene di cosa parlo con il loro clamoroso Z Nation), è vitale.

A parlare di anni Ottanta è difficile scappare dallo slasher, e Ian Kessler in fondo gioca comodo nell’omaggio, era la scelta più ovvia, oltre che pregna di ogni possibile esempio da fiutare e seguire. Sarebbe ormai tempo che con simili possibilità, con la marea di cazzate su cui dovrebbe essere matematico camminare sopra, le cose davvero difficili diventassero lo sbaglio, l’errore, il cliché, l’ingenuità, ma okay, non si può pretendere pulizia e brillantezza, e forse sarà sbagliato limitarsi ad accontentarsi ma, pur con molte valutazioni che dovevano essere diverse, oltre che ponderate con più maturità, Lost After Dark è un piacevole ossigeno con cui riempire i polmoni.
Tolto quindi l’ossequio a un’era indimenticabile con cui è facile farsi chiacchierare, tolte le sciocchezze con cui giocare sul filo del serio e dell’ironia (la parte di pellicola mancante, dài, davvero, ancora?) e le rodriguezate ormai fuori tempo massimo (immagine rovinata, errori di montaggio, giochetti con il sangue sullo schermo), quello su cui gioca bene Kessler è far piombare il suo film nel pieno degli anni Ottanta con quelli che sembrano i mezzi degli anni Ottanta.
Sì, vero, Kessler non salta molto in alto e per di più atterra anche su un materasso bello comodo, però ci sarebbe stata una puzza ben peggiore se questi mezzi fossero stati sfruttati per una risata, per una strizzata d’occhio, per una scena cool e moderna in un contesto che è invece preso sul serio, pur con una giusta serenità e un mezzo sorriso sul volto che, diciamocelo, ci vuole per poter lavorare su un simile progetto.


Lost After Dark sembra sbucare direttamente dal 1984 in cui è ambientato, con tutti i crismi e le lacune che era lecito aspettarsi dal cinema di genere trent’anni fa: un gruppo di adolescenti al ballo scolastico, una scappatella per sbaciucchiamenti soft e hard (ma mai troppo hard, eh), una cabin in the woods dove perdersi e un lercio bestione dedito a passatempi sanguinari, ovvero gli elementi base di uno slasher d’annata che non cerca e non propone novità, si limita a fare benino la sua mattanza e dove può limita qualche spigolo anche con una certa classe.
Il bello di questo sapore polveroso è la mancanza della febbre adolescenziale odierna, i protagonisti sono costruiti con quella semplicità scarna e in qualche modo dolce della gioventù cinematografica proposta in passato, non ci sono strilli, bestemmie e cacofonie alcoliche, quindi non dispiace avere per protagonista una classica bambolina timida che non ha mai passato prima la notte fuori casa, o avere per snodo centrale un amore puro e cheesy come non si vede da anni: se la contestualizzazione è studiata, o almeno dà l’impressione di esserlo, il gioco è fatto e i personaggi si muovono da soli attorno al bulletto e alla sua bionda dal poco cervello, al quaterback dal cuore d’oro, al ragazzo di colore che spara battute, alla rocker e al paffutello che insegue vano l’amore dei suoi sogni.

Sono caratteri costruiti per avere un ruolo e non per essere mera carne marcia da fa penzolare al chiodo, è situazione molto importante e fa sorridere che a ricordarlo sia un film come questo, quando nello stesso periodo esce un’immondizia moderna come Charlie’s Farm, che dello slasher prende solo ed esclusivamente gli ingredienti più piccanti e colorati (le morti e il super gore) per darli senza alcuna aggiunta di intelligenza e dialoghi al pubblico più insipido possibile.
Se quindi si prepara bene il terreno, si può anche accettare che il treno rallenti qualche volta di troppo, visto che comunque Kessler butta carbone e aggiungere quei dettagli che colpiscono quando serve, sono passaggi gradevoli e ben inseriti come la tenera simpatia di quello che invece dovrebbe essere l’outsider del gruppo, la serie di sfighe sceme che bastonano la cumpa ma subito ben spiegate e rese possibili da una combo di dialoghi sempre ficcanti (l’autobus rubato, la benzina finita, ecc) o l’ironia cucita sulla bocca di alcuni di loro in momenti di perfetto tempismo (e quel “cannonball-cannibal” vale un’intera generazione, sicuramente anche oggi brillantissimo) impreziosiscono un body count anomalo e del tutto fuori di testa, con una successione nelle uscite dal campo di gioco che infrange bene o male tutti gli stereotipi possibili e si muove su coordinate e tempistiche bizzarre.


E qui se la spassa parecchio il villain di turno, che non ha granché da farsi ricordare o da trasmettere al genere, è solo un vecchio pazzo pieno di oggetti pericolosi ma il suo compito lo sa fare bene amputando, sbudellando e schiacciando con una certa insistenza questi poveri sfigatelli: il gore è buono, poteva essere più alto ma abbonda quanto basta, e il sangue sprizza bello grumoso.
Peccato allora per lo spreco rivolto a Robert Patrick, per quanto ben inquadrato il suo preside è il personaggio di gran lunga peggiore e dimenticabile di tutto il carrozzone, poteva nascere una bella sfida tra giganti quanto scatta la rabbia verso il mostro cannibale, ma il segno che lascia è troppo, troppo superficiale, e suona meglio accettarne malvolentieri la presenza che cercare di giustificarla in qualche modo. 

Non so davvero a chi possa servire ancora questa scelta stilistica (sempre di quello si tratta, il contenuto ehm non è materia per questi nostri eroi), o meglio, a chi possa essere d’aiuto nel trovare direzione in una scena che, comunque, da un paio d’anni è più ricca di quanto si possa pregare, nell’esultare per il ritorno degli anni Ottanta viventi io mi sono esaltato e stancato un secondo dopo (ma tornerò a esaltarmi per Turbo Kid, già lo so), magari altri no, meglio per loro, vivranno di più e più felici, ma quello che rimane sono sempre certe idee o quei particolari che possano solleticare: l’horror più piccolo vive anche di queste micro frattaglie e se è giusto illuminarne le più gonfie e succulente un piatto al macellaio di fiducia spetta anche a Lost After Dark.

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