Blue Ruin (2013)

By Simone Corà | giovedì 11 dicembre 2014 | 00:05

Avete ottenuto la vostra vendetta, il bad guy è morto e giustizia è fatta. Ma poi?                                    
 

È facile vedere la vendetta personale come atteggiamento protofascista, meno semplice è venderla proprio per sgravare un prodotto da complicazioni politiche e morali che rischiano, se mal dosate o gratuite, di rovinare della sana soddisfazione fisica ed etica che, a volte, non è male e non è sbagliato incontrare e provare al cinema. Per fare qualche nome, c’è chi c’è riuscito (Park Chan-Wook), chi se n’è fregato (Pierre Morel con il suo schiacciasassi Taken), e chi, come Jeremy Saulnier, si è interrogato su altre questioni che, di solito, il cinema di genere tende, a volte anche giustamente, a sottilizzare.
A meno di non essere un poliziotto o di possedere comunque un qualche tipo di preparazione, e per quanto la rabbia per il male subito possa essere devastante e compressa in una bolla che rischia di esplodere da un momento all’altro, fare il giustiziere non dev’essere cosa per tutti. Senza implicare tanta filosofia spiccia e falso moralismo nell’essere migliori dell’altro e di non abbassarsi ai suoi livelli, l’uccidere può essere solo incrocio di reazioni nucleari che non si possono, non si possono descrivere, e il Dwight di Macom Blair è un esempio sorprendentemente credibile di cosa comporti il mettersi in testa un simile pensiero e volerlo portare sino in fondo.

Dwight è un medioman come tanti altri, non è sposato, non ha figli, Saulnier suggerisce anche che a più di quarant’anni viva ancora con i genitori, dopo la morte violenta degli stessi si è esiliato trasformando la sua macchina in una casa e vivendo di stenti fino a quando non scopre che il loro assassino è uscito di prigione. Il pensiero è immediato, addirittura meccanico, ucciderlo è l’unica cosa che può dare senso alla sua attuale e misera esistenza. Ma non si può essere killer da un giorno all’altro, e Dwight è una spugna che assorbe tutte le possibili complicazioni che la mancanza di una mente fredda comporta: l’adrenalina lo porta a non preparare piani e a fare tutto d’istinto, l’agitazione lo obbliga a errori e a rischiare grosso in moltissime occasioni, e in generale l’ingenuità, ma è l’ingenuità di una persona normale, fa sì che la sua vendetta sia un continuo sbaglio, verso se stesso e chi gli sta vicino.
La bellezza di Blue Ruin sta proprio nel non gonfiare la buffa innocenza di Dwight, e il film, per quanto colmo di momenti ironici, non appare come una versione più leggera di una storia di vendetta, né una sorta di ibrido tra noir e commedia come va di moda fare nell’horror, o un qualche tipo di black humor con schizzi pulp. Anzi, qui siamo di fronte a parentesi nichiliste, squarci di violenza terremotante e lunghe sequenze di silenzio interiore che non permettono mai alla goffaggine di Dwight di prevalere, facendo scordare di cosa stia in realtà parlando Saulnier. La catastrofe che mette in moto ha conseguenze che chiunque, nella sua posizione, non è in grado di calcolare, sono troppi i sentimenti e le emozioni in gioco per essere abbastanza lucidi e perfettamente geometrici. Non è quindi più una questione di giusto o sbagliato, non ci sono dubbi che sia sbagliato soprattutto perché questo tipo di sbaglio può scatenare reazioni ben peggiori.


L’infrazione in casa di sua sorella scampata per un pelo, le ferite subite e curate con altrettanta fortuna, le armi recuperate per enormi coincidenze sono solo alcuni dei problemi giganteschi affrontati da Dwight in seguito alle sue azioni tanto spontanee quanto incerte, ed è un miracolo che sparatorie e area d’azione rimangano entro certi limiti e non coinvolgano molto altro, ennesimo favorevole volere di un destino che sembra soccorrere Dwight solo per poi divertirsi facendogli stupidi dispetti.
E per mettere in scena tanto rigore nel non-rigore vendicativo di un protagonista memorabile, Saulnier è caloroso e glaciale allo stesso tempo grazie a una narrazione che non spiega, non spiega mai, neanche con qualche sviolinata o minuscoli riassunti, ciò che sta accadendo: tutto è mostrato con una raffinatezza esemplare che trasforma il disastro di Dwight in una frattura che si allarga un poco alla volta, aggiungendo di minuto in minuto, con dialoghi deliziosi e sguardi colmi di significato, informazioni necessarie a capire da cosa sia stata creata. 

Bellissimo infine il supporto musicale, trattenuto ed essenziale, con quel No Regrets che parte a metà film e dona alla stramba, dolente vicenda di Dwight un amaro sapore nostalgico. 

3 commenti:

  1. altro titolo che mi segno all'istante....

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  2. visto lo scorso anno al Torino Film Festival, mi era piaciuto parecchio...

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