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Recensione: The Gerber Syndrome

By Simone Corà | lunedì 19 dicembre 2011 | 08:00

The Gerber Syndrome sfrutta la scia del genere zombesco e del mockumentary, ma se in apparenza sembra la solita solfa virale, genere che ultimamente ha prodotto enormi cagate (il remake de La città verrà distrutta all’alba) e giusto qualche titolo da annotare (Carriers), l’esordio di Maxì Dejoie riesce a prendere bene le distanze da entrambi, sfornando un prodotto particolarmente interessante, soprattutto pensando alla sua italianissima natura, con un budget di appena 20.000 euro. Non abbiamo a che fare coi soliti zombi, ma con una malattia degenerativa, e non siamo in ambito di materiale found footage, ma di un vero e proprio documentario, con tanto di montaggio, che per una volta non punta sulle scene di paura e di crescente inquietudine.

La storia è un insieme di interviste che cercano di spiegare cosa sia questo morbo di Gerber, come si possa contrarre, se sia davvero così pericoloso come sembra o se, in realtà, sia qualcosa di controllabile. Maxì Dejoje focalizza la trama su due personaggi di 23 anni: un ragazzo che svolge il lavoro di vigilante, addetto anche al recupero di persone malate, e una ragazza che contrae la malattia. Da una parte accompagneremo quindi il primo in un giro di ronda notturna che ci porterà a stretto contatto con la pericolosità di un lavoro del genere, dall’altra vivremo il calvario di una qualsiasi famiglia che assiste la figlia mentre il morbo avanza implacabile, senza possibilità di cura.

The Gerber Syndrome ha il pregio di risultare terribilmente reale, raccontando la delicata fase di passaggio di questa ipotetica nuova malattia, dal suo manifestarsi al suo diffondersi, mentre lo spettatore assiste allo stadio confuso che sta a cavallo delle due. Il film fornisce risposte parziali a interrogativi circa la gravità del morbo e il modo in cui la popolazione possa reagire al suo progressivo dilagarsi, e proprio nella sua dolorosa incertezza risiede l’efficacia della tecnica documentaristica, che solleva continuamente questioni come strumento non solo d’informazione ma anche, e soprattutto, di protesta e ribellione.

Ci si accorge dell’importanza del problema poco per volta, e comprendiamo il pericolo reale solo nel momento in cui scopriremo che si stanno apportando radicali modifiche ad alcune norme sociali che controllano il nostro vivere quotidiano: un numero verde creato appositamente per la malattia, uno spot pubblicitario che pare minimizzare il tutto, la nascita di un nuovo lavoro come quello dei vigilante (che non sanno ancora come integrarsi con polizia e pronto soccorso), il fiorire di improvvisati centri medici di “accumulo corpi”, oppure le ordinanze che vietano alle discoteche, e in generale ai luoghi dove si raccolgono molte persone, di stare aperte.


La recitazione è ispirata e credibile da parte di tutto il cast (bravo Sax Nicosia nei panni del dottore tormentato, così come i genitori afflitti della povera ragazza ammalata), ma bisogna spendere una parola per Luigi Piluso, attore non professionista e alla sua prima esperienza davanti alla telecamera, che offre la prestazione migliore proprio per la sua naturalezza coatta, fattore che dona al suo personaggio un realismo, perfetto per il taglio documentaristico, raramente visto in prodotti del genere. E non sono poche le scene che mostrano una credibilità spaventosa, in particolar modo nei comportamenti umani (il fidanzato di Melissa, il collega di Luigi e i suoi discorsi destrorsi).

La pellicola tiene bene, ed è talmente efficace che si possono perdonare alcuni cali registici e narrativi di cui ogni tanto soffre (il modo in cui Melissa contrae il morbo, la sequenza dell’operazione al cranio di un malato, i taciuti effetti collaterali del farmaco sperimentale, e in generale la presenza di una troupe televisiva nella stanza dell’ammalata, concessione tuttavia necessaria e a sua modo provocatoria di una certa televisione). Unica nota davvero stonata è però una scena che purtroppo irrompe nel nostro inconscio ricordandoci che stiamo vedendo un film, non un documentario. Grosso errore infatti filmare i tre tamarri in stile “peggiori bar di Caracas”, macchiette fuori posto e ridicole, compreso il video che caricano assurdamente su youtube: basterebbe un cut di pochi minuti per togliere la scena e la pellicola ne guadagnerebbe parecchio.

Un piccolo gioiellino, una vera e propria sorpresa, finalmente un prodotto underground realizzato con pochissimi mezzi che abbia da dire qualcosa e, soprattutto, riesca a farlo.

2011, Italia, colore, 85 minuti
Regia: Maxì Dejoie
Sceneggiatura: Maxì Dejoie

[Simone & Crescizz]

2 commenti:

  1. Grazie. Mh, interessante. Ma lo si trova?

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  2. So che adesso sta girando i festival, magari un po' più avanti si potrà recuperarlo. :)

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